Nel 1415 si celebrano strani riti sul prato dove si è consumato un omicidio; negli anni 20 del ‘900 un ragazzo scappa dall’atmosfera violenta di una fattoria; negli anni 60 la piccola Mari, emigrata dall’Ungheria insieme al padre, ancora tormentata dai ricordi di guerra e polizia segreta, osserva la demolizione della fattoria dopo il suicidio dei fattori; all’inizio del nostro secolo nel condominio sorto sul luogo della fattoria si sta sfasciando una coppia. Lasciando in sospeso il mistero del fascino morboso che il prato esercita su chi, in un lasso di 600 anni, vive ai suoi margini, la prosa di Christina Viragh, avvincente e nel contempo leggera, offre al lettore una totalità frammentata: la storia di un pezzo di terra, che non appartiene veramente a nessuno – “perché porta in sé il passato. Prima c’erano altre persone, altre storie, altre strutture, aveva un altro aspetto. In questo senso ci troviamo su un pezzo di terra che un po’ vacilla sotto i nostri piedi”.
In questa sera d’aprile dell’anno 1415 fa sosta qui sul prato una compagnia di cavalieri. Si sono ornati con fronde di faggio che portano infilate nella banda frontale dell’imbrigliatura dei cavalli, nei berretti delle cavallerizze e dei cavalieri e anche fra i capelli, a corona, o attorno al collo.
Christina Viragh, nata a Budapest nel 1953, nel 1960 emigra con la famiglia in Svizzera. Ora vive e lavora a Roma. Traduce dall’ungherese (tra gli altri il premio nobel Imre Kertész e Sándor Márai). In aprile, salutato dalla critica come uno dei capolavori della letteratura tedesca contemporanea, è il suo quinto romanzo.